Recensioni

Cosa dicono di me…

Relazione del Prof. Gennaro Oriolo

Assessore alla Cultura del Comune di Scandicci pronunciata alla Regione Toscana il 28 aprile 2018.

ll Mulino sul Colognati è un viaggio, tra il sogno e la realtà, della memoria e dell’anima nell’infanzia, nella Calabria rurale dal 1949 al 1958, poco prima che i contadini abbandonassero in massa le campagne per le fabbriche del Nord Italia e del Nord Europa e morissero alla loro identità, al loro mondo e alla loro cultura secolare, pur intrisa di povertà e di dolore.

Il Mulino sul Colognati evoca quel mondo e quella cultura raccontando l’esperienza di un ragazzino tra i sei e i quattordici anni.
Narrando gli eventi gioiosi e dolorosi che lo coinvolgono, ma anche l’atmosfera di quella terra, i suoi valori, i suoi miti, tra realtà e fantasia, tra storia e leggenda, l’autore riporta alla memoria un tempo e un mondo, radici, che abbiamo bisogno di non dimenticare.

Tutto è ambientato a Rossano Calabro, per secoli forse la più sicura fortezza della Magna Grecia; certamente uno degli acrocori più caratteristici dell’intero Meridione. Ma le vicende narrate, quella cultura e quei paesaggi, con pochissimi ritocchi secondari, potrebbe corrispondere a qualunque piccolo centro del Meridione rurale di quegli anni.

L’autore, per evocare la magia di quel tempo e di quel mondo, ha voluto parlare di ogni protagonista particolarmente significativo, persona, luogo o cosa, nominandoli attraverso la forma dialettale.
Il racconto attinge a piene mani a elementi autobiografici, però senza asservimento, come il pittore ai colori, rigorosamente, solo quando l’affresco che ha in mente li impone. (Settimio Ferrari)

Nel romanzo Il viaggiatore Rolando Rizzo narra con forti accenti evocativi di una partenza dolorosa verso la speranza, e di un percorso tormentato e talvolta drammatico che approda ad una felicità ricercata con ostinazione e senso del limite. Una vicenda assai simile a quella di tanti ragazzi del quarto e quinto mondo che lasciano in lacrime i colori della propria terra, i compagni di giochi, quando il gioco è la vita, le mamme, i nonni, per inseguire un sogno che spesso è costellato da incubi.
Il viaggiatore, romanzo di formazione, racconta di un ragazzino di 14 anni, mai uscito dal suo paese, che lascia in lacrime l’acrocoro di Rossano Calabro sullo Ionio su un treno affollato di emigranti, determinato a realizzare il disegno di una nuova, più ricca e matura identità, a Villa Aurora, una villa principesca sulle colline di Firenze, attribuita a Michelozzo, a due passi dalla villa di campagna di Lorenzo il Magnifico.
La visione che agli inizi pare facilmente realizzarsi diventerà presto un miraggio e un incubo. Troppe le differenze tra il suo mondo e il mondo nuovo che era compatibile solo nei suoi sogni di bambino. Il protagonista sarà costretto a vagabondare alla ricerca di un baricentro spirituale e morale per riscoprire e ricomporre il mosaico della sua famiglia che una tragedia aveva violentemente frantumato. Alla fine prevarranno la misericordia e l’amore anche se, numerose volte, sarà sfiorata la morte morale e spirituale.
Il romanzo, ricco di poesia, si impernia sul vissuto dell’autore, ma si apre, attraverso suggestive metafore letterarie, ad un mondo di personaggi ricchi di umanità e di grande spessore psicologico, che il narratore con la sapiente tecnica di un “puparo siciliano” mette in campo con commossa partecipazione.
A Rolando Rizzo ben si addice ciò che era solito dire Eduardo De Filippo della sua opera: – Ho respirato la sofferenza di tanta gente.

Relazione del Prof. Giuseppe Marchetti Tricamo

Direttore della rivista letteraria Leggere Tutti pronunciata durante la presentazione de Il Mulino alla Confesercenti di Roma il 19 gennaio 2009, pubblicata come editoriale della rivista Leggere Tutti, nel numero di gennaio-febbraio 2009.

Scrivere perché vi sia memoria
Per l’ossessione del progresso (all’inizio degli anni ’60) siamo saliti su un treno velocissimo (Pietro Citati). Sentivamo solo il ritmo regolare del treno sulle rotaie, era l’avanzare inesorabile verso un’altra vita. Partivamo da stazioni diverse e portavamo con noi soltanto una valigia di cartone legata con lo spago. Una valigia che conteneva tutto il passato.
Era un peso, una cosa fastidiosa della quale quasi vergognarsi. Come se il suo contenuto non ci appartenesse. Non riuscivamo neppure a guardarla e l’abbiamo lasciata chiusa in un angolo con il suo contenuto segreto.
Per anni, ciascuno di noi e tutti noi insieme, abbiamo annullato abitudini, allontanato tradizioni, svuotato paesi, abbandonato campagne, tagliato boschi, inquinato l’aria, cementificato i litorali del mare. Era l’ossessione del progresso che ci portava a fare il passo più lungo della gamba. Per lunghi anni non abbiamo più ascoltato le voci del nostro passato. Non abbiamo ascoltato il brontolio della solida civiltà contadina per correre dietro ai sogni frenetici della civiltà borghese, alle illusioni da rotocalco, alle allucinazioni da tv. Viaggiavamo verso il territorio dei sogni e dei desideri.
Oggi che il futuro che abbiamo rincorso è finito (Alessandro Baricco) non ci resta che aprire quella valigia – che nel nostro viaggio ci siamo portati dietro – per tirar fuori le buone cose del passato.
Lo fa uno scrittore, ancora sconosciuto a molti, Rolando Rizzo, che ha aperto la sua valigia e ha preso coscienza delle ferite segrete che vi aveva chiuso dentro esplorandole pazientemente. Queste ferite e questi dolori gli hanno dato l’ispirazione per un romanzo sorprendente (Il mulino sul Colognati).
Ci sono almeno due tipi di scrittori: quelli “assidui frequentatori di talk show”, brillanti opinionisti dell’inutile, spesso presenti nelle classifiche dei libri più venduti, e quelli “normali”, uomini o donne che fanno la fila al supermercato e alla posta per pagare le bollette della luce e del gas, autori di insospettabili capolavori a cui soltanto il passaparola può aprire la strada della visibilità e del successo. A questa seconda categoria appartiene Rolando Rizzo. Il suo è un libro che va riletto almeno due volte: la prima, si è talmente presi dalla storia e si va avanti molto velocemente, con la seconda lettura si ha voglia di perdersi dentro: di fermarsi nei luoghi, di intrattenersi con i personaggi. Ritroveremo il nostro “Eden con mille fiori e mille frutti che profumavano di cielo e di nuvole, di sole e di neve”, e in un contesto aspro e dolce che ci resterà per sempre dentro.
Da ragazzo vedevo la Calabria dalla sponda Messinese dello Stretto. La vedevo la mattina nel sole che sorgeva dietro Scilla e la notte, quando nell’orizzonte i fuochi dei carbonai dell’Aspromonte si confondevano con le stelle del cielo. Questo libro me l’ha fatta ritrovare.
Leggere e scrivere sono facce della stessa medaglia.
“Scrivere fin tanto che la mano troverà la forza di correre, scrivere perché vi sia memoria” (Gilbert Sinoué). Memoria di un tempo e di un mondo che non dobbiamo dimenticare. E se siamo così, come siamo oggi, è perché siamo fatti di quel tempo e vogliamo tenere viva la nostra identità.
In Italia, le “sorprese” in letteratura arrivano dai medi e piccoli editori. I grandi hanno rinunciato al ruolo di “scopritori di talenti letterari”, pensano al libro soprattutto come oggetto commerciale e come centro di profitto, preferiscono tradurre e non rischiare: ne abbiamo conferma dai libri presenti nella classifica dei libri più venduti di questi giorni; su dieci titoli sette sono di autori stranieri.
Siamo alla globalizzazione delle idee, all’omologazione del pensiero. Il passo successivo, se si continua a percorrere questa strada, sarà il genocidio culturale.

Cover
Cover

Recensione di Giuseppe Marchetti Tricamo

In Italia ci sono almeno tre tipi di scrittori: i talenti acclarati e insediati nell’Olimpo della letteratura; gli “assidui frequentatori di talk show”, i brillanti opinionisti dell’inutile e spesso presenti nelle classifiche dei libri più venduti, e quelli “normali”, uomini o donne che incontriamo nella vita di tutti i giorni, autori insospettabili di capolavori a cui soltanto il passaparola può aprire la strada della visibilità e del successo. A questa terza categoria appartiene Rolando Rizzo. Il suo primo libro, Il Mulino sul Colognati, pubblicato da poco più di un anno, è straordinario e ha avuto successo. L’abbiamo letto e commentato. Ci siamo congedati dalla quella lettura augurandogli con Gilbert Sinouè di “Scrivere. Scrivere fin tanto che la mano troverà la forza di correre: scrivere perché vi sia memoria”.

Naturalmente, con il tempo cambiano molte cose e può mutare anche il giudizio su un autore e sulla sua produzione. Sappiamo che il primo libro, quello dell’esordio, ha la freschezza e la forza dell’opera prima e per lo scrittore può essere l’inizio di un cammino o diventare un blocco. Ma un blocco per Rolando Rizzo non poteva arrivare e non è arrivato. E il motivo ce lo facciamo spiegare da Claudio Magris, il quale afferma che “scrivere è trascrivere. Anche quando inventa, uno scrittore trascrive storie e cose di cui la vita lo ha reso partecipe senza certi volti, certi eventi grandi o minimi, certi personaggi, certe luci, certe ombre, certi paesaggi, certi momenti di felicità e disperazione, tante pagine non sarebbero nate”.

E di storie e di cose da trascrivere Rizzo ne ha tante, storie sue, storie di luoghi e di persone. Si è sbagliato chi ha temuto che il suo racconto potesse concludersi sul quel treno che lo strappava “all’Eden incontaminato piantato da una divinità creativa, un luogo con non uno ma con mille e mille alberi della sola conoscenza e della vita e mille erbe aromatiche, mille fiori e mille frutti che profumavano di cielo e di nuvole, di sole e di neve” (è una frase di Rizzo). Lui quella sua terra non l’ha mai abbandonata. L’ha tenuta dentro. Rizzo ha sempre vissuto di quei principi antichi, di quella memoria e di una regola: quella di non mentire agli altri, e soprattutto a sé stesso. Il rapporto con la sua terra è stato totalmente forte da non permettergli di sentirsi lontano da essa completamente a proprio agio. Sempre un po’ fuori posto. Lui è sempre stato, ed è, altrove a cercare storie, a misurarsi con i suoi personaggi. La sua terra (la Calabria, e il suo paese, Rossano) c’era nel precedente libro, c’è in molte pagine di questo nuovo, Il Viaggiatore (Ferrari editore, pagine 326, euro 16), e ci sarà nel prossimo perché siamo certi che Rolando Rizzo continuerà a regalarci pagine preziose, pagine da leggere subito e da continuare a leggere anche tra dieci e più anni.

Per Rizzo è stato fisicamente difficile staccarsi dal Colognati (il torrente impetuoso dell’infanzia contadina). Questo suo nuovo libro inizia da quel viaggio “sul treno dei sogni” (“C’è sempre un piano preciso, dietro a tutto… ognuno ha davanti le sue rotaie, che le veda o no”, Alessandro Baricco, Castelli di rabbia): “E per un po’ senti l’entusiasmo di correre finalmente verso la speranza”. Quella speranza era Villa Aurora, l’istituto scolastico-teologico sulle colline di Firenze, che avrebbe rappresentato il cambiamento.

È bravissimo Rizzo a descrivere i luoghi. Usa il tasto del computer come fosse un pennello, una macchina fotografica. Il suo Razzotti, il protagonista, conduce il lettore per mano in tutti gli angoli. Di Villa Aurora ci racconta la storia, ci parla degli antichi proprietari i Macinghi, i Riccardi. Ci presenta l’architetto, Michelozzo, che l’ha progettata e i personaggi che l’hanno frequentata, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Lorenzo il Magnifico. Di grande pregio architettonico l’edificio. Incantevole il giardino. Ma anche lì si sente spaesato ed escluso. Gli mancano gli amici. Si sente straniero. “Quel treno di ferro mi aveva lacerato l’anima e bruciato per sempre i tessuti delicati del cuore”. Gli manca Nicu Pascu, gli manca l’amico al quale confidare tutto di sé stesso. Nella vita Razzotti potrebbe rinunciare a tutto, non all’amicizia. Ma finalmente ritroverà l’amico quando incontrerà Gosto Sarti. Quanto somiglia a Nicu Pascu!  Hanno molto in comune Gosto e Razzotti. Anche due mulini e due fiumi. E attraverso il racconto di Gosto, Razzotti ritrova la terra lontana. Una Calabria che è Casentino, due regioni lontane ma unite nelle vicende antiche. È bravo Rizzo nel presentarci i personaggi. E che personaggio incredibile è Gosto. Lui da solo meriterebbe un intero libro. A noi Gosto Sarti piace anche per quella sua casa “invasa da libri di ogni dimensione e formato”.

È saggio e ricco di umanità, Gosto. “La vita è uguale per tutti” scrive nella sua ultima lettera a Razzotti. Ma anche la vita più dura e più tormentata può cambiare. Razzotti ci è riuscito. “Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde” (Baricco, Castelli di rabbia).

Relazione della prof.ssa Maria Giannicola Luberto

Vice presidente “Dante Alighieri” di Cosenza, il 12 gennaio 2010 alla Casa delle culture di Cosenza.

In genere, quando leggiamo un Romanzo procediamo lungo un percorso tracciato sì dall’autore, ma quasi ricostruito dalla nostra immaginazione, perché ciascuno di noi si dipinge paesaggi, personaggi, scene secondo le proprie capacità percettive.

Lo scrittore descrive, ci parla, ci conduce tra le pagine, ma noi guardiamo tutto con i nostri occhi.

Per quanto possano essere chiare, limpide, evocative le parole dell’autore, avviene sempre una sorta di contaminazione.

Ma quando apriamo un libro autobriagrafico, e questo è un libro autobiografico anche se chiamato Romanzo, perché bisogna pur dare una struttura a tutto ciò che urge dentro, allora esploriamo territori sconosciuti, percorriamo vie tracciate univoche, le sole percorribili.

E noi non ricostruiamo lineamenti e paesaggi, ma viviamo quel mondo  intimo che ci viene incontro.

Nei suoi libri Il Mulino sul Colognati e Il Viaggiatore Rolando Rizzo apre la porta del suo mondo e ci introduce nella sua vita.

Sono due libri densi di eventi e in cui si respira una forte tensione emozionale che ci accompagna costantemente.

Una bella tela la copertina del primo libro, colorata di figure e scene rurali di canti e danze alla luce della luna e di un grande falò rosseggiante accanto al Mulino sul Colognati.

Di forte, graffiante impatto visivo la copertina del secondo: Il Viaggiatore.

Già la parola evoca esplorazioni, incontri, scoperte, esperienze, conquiste che spostano sempre nel futuro l’orizzonte.

Rolando parte, è il Viaggiatore, e noi, “in un Luglio torrido del 1958 spezzato da un temporale improvviso, con la pioggia che crepita fragorosa sul tetto e scivola a cascata sui finestrini“, partiamo con questo adolescente di appena 14 anni, che lascia la sua terra dove ha vissuto la sua infanzia giocosa pur nella fatica e nelle ristrettezze economiche.

Silenzioso, seduto accanto ad alcuni emigranti, Rolando guarda fuori dal finestrino “l’unico mondo che avessi mai visto e conosciuto e che ora corre a ritroso”.

Il suo futuro è da costruire a Firenze, a Villa Aurora, dove lo ha indirizzato la sua vocazione, già allora tenace.

Ma dentro ha tutte le incertezze dell’età e quel senso di sperdimento che nasce dalla consapevolezza dell’ignoto: “Mi sentivo nel profondo provvisorio e straniero. Il mio futuro non era più a Rossano, ma altrove, passava ‘pi ddà’, da Firenze.“

Ma “Chi parte si trasforma in eterno emigrante con il cuore che resta sempre nei luoghi dell’infanzia“.

Così Rolando vive su due palcoscenici contigui: su uno, con la regia della memoria, anima un caleidoscopio di scene, persone, paesaggi legati a Rossano, al Mulino sul Colognati, alle campagne con gli orti, i giardini, le fiere paesane, le file degli asinelli, le allegre scorribande con Ciruzzu e con gli amici.

Basta una voce, un odore, “una pergola di stelle palpitanti”, un cenno,  un gesto tra gli altri ragazzi di Villa Aurora, ed ecco aprirsi il sipario sullo spettacolo vissuto al Colognati, “terra felice che avevo dovuto abbandonare“.

In parallelo, sull’altro proscenio, Rolando vive il presente.

Vive fra tanti ragazzi, Rolando, legge, lavora, ma fantasticare, sognare ad occhi aperti, inventarsi storie, dialogare con interlocutori immaginari è la sua normalità.

Vi si è abituato nelle lunghe giornate al Crocifisso per vincere la solitudine.

Non si sente ancora integrato: “…era passato un anno, mi sentivo un bruco anche se la vocazione rimaneva abbarbicata al cuore”. Non ha un nome, per tutti è solo Razzotti. “Sul Colle del Crocifisso tutti e tutto conoscevano il mio nome”.

Comunque, ha profondo il senso della dignità, l’orgoglio della sua appartenenza. È fermo nei suoi propositi, come lo sanno essere solo i giovani che si sentono investiti di una missione e hanno mente e cuore uniti da una vocazione.

Leggiamo, dunque, vicende intense, non corrose dal pessimismo sterile, vicende che dalla sventura aprono alla speranza, vissute negli anni tra il 1958 e il ’72.

Sono anni di cambiamenti e di rinnovamenti che aprono ad un’epoca nuova, anni di lotte e di conquiste sul piano dei diritti civili e sociali.

Ma non dimentichiamo che abbiamo dinanzi due palcoscenici e se nel presente ci sono i Beatles, il Rock, i Kennedy, lo sbarco sulla Luna, il contrasto generazionale, il ’68, eventi che vediamo vivere nei dialoghi e nelle conversazioni a Villa Aurora o durante la naia a Napoli, sul palcoscenico parallelo, eventi storici del passato rivivono particolarmente nei racconti di Gosto Sarti, con quel suo Casentino quasi speculare alla Valle del Colognati. Gosto Sarti, così simile a Nicu Pascu, il saggio amico del paese.

Gosto per Rolando è un punto di riferimento in quegli anni, è il suo Mentore con la saggezza della sua lunga esperienza di vita. Come accade sovente, nei momenti difficili Rolando cerca Gosto, gli apre il suo cuore e Gosto gli racconta la sua vita come non ha fatto mai con nessuno.

Gosto è una costante nel Romanzo e scopriamo il suo animo attraverso le tappe del suo racconto che l’autore interrompe nei momenti cruciali, per riprenderli più volte con lo scorrere del tempo e delle pagine. È un personaggio che si inserisce nella logica del Romanzo, spunto reale rielaborato dall’ispirazione.

È una costante anche sorella Elisena, che scandisce l’atmosfera di Villa Aurora e tanti momenti della vita di Rolando. Personaggio riservato, vive una forte spiritualità che riversa anche nella cura del Parco di Villa Aurora.

Anche lei, racconta a Rolando, è stata toccata da vicende dolorose.

Gli eventi storici rappresentano il fondale dei vari atti. Sono presenti, certamente, vivi, ma mai sovrastano, mai prevaricano quella che è la vita di Rolando a Firenze, a Livorno, a Napoli, le sue speranze, le conquiste faticose negli studi, le delusioni, gli sconforti, le coraggiose riprese.

È questo che noi vediamo rappresentarsi sul palcoscenico. E tuttavia, quegli eventi, così fortemente presenti nei racconti di Elisena, di Gosto, perché ne hanno stravolto la vita, sono contemporanei a Rolando, si riverberano sugli anni in cui vive. Sono voci graffianti che non possono non giungere nel Romanzo: il Nazismo, l’opposizione coraggiosa della Rosa Bianca, la guerra, la bestiale crudeltà delle SS, l’orrore indicibile della Shoah.

Ma non solo momenti di tristezza, studio, fatica vive Rolando. Animano le sue giornate le allegre chiacchierate con gli amici convittori, le partite di calcio, le fughe proibite al Cinema a “ vivere l’emozione di una finestra che si apre sulla vita”, le quiete passeggiate con le ragazze convittrici nel Parco “con l’aria soave di gelsomini“ e su cui “gocciolavano minuscole scaglie di luna”.

E c’è anche l’amore, che Rolando vive con cuore candido, alieno da facili avventure, come le vivevano i suoi amici di stanza, perché lui cerca una ragazza da sposare e tenere con tenerezza e devozione per tutta la vita.

E all’orizzonte appare Giulia, che vincerà la resistenza della famiglia ostile verso un meridionale – con quel temperamento e bersagliere –  “Giulia era per me la chiave per aprire il futuro”.

Il libro si nutre in ogni sua pagina di una profonda religiosità, genuina, sostanza stessa dell’io di Rolando, tenace anche nei momenti dei dubbi che scandiscono la sua crescita.

Ma è intessuto anche di un’aura poetica, così chiara nelle descrizioni dei paesaggi, quelli del presente, a Villa Aurora, e quelli del passato, rianimati nella memoria.

Leggendo, percepiamo un senso sacro della natura, che assume toni e colori degli idilli leopardiani. Sono paesaggi osservati con gli occhi del cuore o ricostruiti dalla memoria, sempre intatti, luminosi, anche quando il protagonista li osserva dal treno, che è una presenza ricorrente, quasi sempre affollato di emigrati che scendono al Sud per Natale o Pasqua.

Tutto viene narrato direi con delicatezza, senza quell’insistere morboso su certi temi, senza quel linguaggio ambiguo e scabroso che pare essere il costume degli scrittori di oggi.

C’è una bella teatralità in tutto il libro e le storie narrate dai tanti personaggi che popolano le giornate di Rolando creano teatro nel teatro.

Quel tumulto di sogni, paure, speranze, fragilità, desideri, che prima erano voci intime senza sonoro nell’anima di Rolando Rizzo, diventano nel libro segni parlanti, voci con il sonoro.

La parola scritta si fa immagine e tu, lettore, sei dentro alle vicende, le vivi.

Preso da un gioco sapiente di suspense in quell’alternarsi di storie, descrizioni, paesaggi, sei attratto nella lettura come in un vortice e vai sempre avanti, fino in fondo al libro, fino all’ultima pagina.

Ma qui non trovi l’epilogo.

Come nel primo libro, ti trovi in un treno, sotto la pioggia.

Ma questa volta non hai l’animo sconvolto di chi lascia il nido riscaldato dagli affetti.

Hai accanto il calore inebriante dell’amore di Giulia e dentro alcune certezze.

E aspetti il nuovo libro per vivere nuovi segmenti della vita di Rolando Rizzo.

Pietro Caruso sul Corriere di Romagna del 2 marzo 2011

Serata d’autore, alle 21, promossa dal forlivese circolo aclista “Oscar Romero”, con sede nella parrocchia di San Giovanni Evangelista che ha in don Erio Castellucci il suo primo protagonista spirituale e in Pierantonio Zavatti il presidente del sodalizio.

Serata dedicata a un nuovo cittadino di ForIì: il professor Rolando Rizzo, una delle menti della Chiesa Avventista, ramo della estesa e variegata famiglia del cristianesimo protestante.

Rizzo, originario della calabrese Rossano, ha scritto i primi due libri di una trilogia fortemente improntata sulla memoria biografica. Non un diario, né una stucchevole operazione culturale di “come eravamo”, piuttosto l’apertura ordinata di uno scrigno di saggezza maturata attraverso contraddizioni ed errori.

Da questo punto di vista nel romanzo d’esordio Il Mulino sul Colognati, racconto epico giovanile, improntato a un lirismo che sa di odori e cose mediterranee.

L’autore rientra perfettamente nella categoria dei ragazzi che crescono in una piccola e magica comunità. Una comunità povera e combattiva come è stata quella dell’esperienza della piccola chiesa avventista nel Mezzogiorno, partendo proprio dalla dura terra calabrese del dopoguerra.

La serata prevede letture di pagine dei romanzi Il mulino sul Colognati e Il viaggiatore, entrambi editi dall’editore Ferrari di Rossano. Un legame con il paese delle origini che l’autore non nega in alcun modo. Nel secondo romanzo il racconto si dipana nel passaggio dall’adolescenza alla maturità incentrata sull’esperienza educativa vissuta prima come convittore e più tardi come formatore a Villa Aurora, uno dei centri di comunità ideale e religiosa dell’avventismo

La sincerità di Rolando Rizzo commuove. Non fa mistero di alcune delle ingenuità e dei limiti di carattere che gli furono attribuiti in un’epoca che arriva fino a quel periodo intenso e tormentato che è il crinale fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta.

Rizzo, personaggio volitivo, educato spartanamente, sa mostrare straordinarie doti di delicatezza esistenziale in quella scuola di temperanza che non ha mai mostrato servilismo. Forse è per questo che ha dedicato un periodo significativo degli anni Ottanta a dare voce al mondo giovaniIe dell’avventismo.

Esperienza, in Italia, sconosciuta.

Cover
Cover

Recensione di Giuseppe Blefari

Qualche tempo fa, chiacchierando dei suoi scritti, mi ritrovai a dire a Rolando Rizzo: “Vedrai che da qui a breve, anche tu, ti cimenterai con il racconto”.
Mi rispose, con la semplicità ed il candore che lo contraddistinguono: “Lo sto già facendo”.
Così, dopo le narrazioni di più ampio respiro dei romanzi, oggi ci troviamo di fronte Cieli tamarri, una raccolta di 15 racconti che, diciamolo subito, senza voler minimamente stravolgere nulla dal punto di vista tecnico e narrativo, colpiscono al cuore chi legge e lo trasportano in epoca, ambientazioni, situazioni che abbiamo troppo in fretta voluto archiviare in nome di una modernità distruttrice di valori e sentimenti.
Sono gli anni in cui la guerra ha lasciato in eredità miseria ed incertezza a chi di miseria ed incertezza non aveva bisogno; dolore e sofferenza a chi nel dolore e nella sofferenza aveva vissuto e che, per questo, con dolore, sofferenza, miseria, incertezza ha impastato la sua storia. Quella passata e quella futura, ma senza mai perdere la speranza, la fede, la dignità.
Rossano ed i paesi del circondario, la gente di questi posti è fatta così: se si taglia, insieme al sangue viene fuori un siero composto di silenzio, pensieri, voglia di riscatto, che ha innaffiato e fatto crescere i semi della cultura, della teologia, dell’arte dell’imprenditoria, di cui oggi si può andare giustamente fieri.
Ed è la fierezza, stemperata e declinata in varia forma, che anima i personaggi di Rolando Rizzo, non soltanto quelli di Cieli tamarri, ma anche quelli dei suoi romanzi, e dunque, i personaggi che almeno una volta nella vita abbiamo incontrato, con i quali abbiamo avuto a che fare, anche scontrandoci con la ferrea fermezza di caratteri e convinzioni che qualche volta non abbiamo condiviso, ma che, a distanza di tempo, ritroviamo presenti e vive a farci da monito ed insegnamento.
Cieli tamarri. La comunione dei numeri ultimi. Chiaramente in contrapposizione con “la solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano, il sottotitolo è programmatico: non storie alto borghesi né voli in territori a noi lontani, ma pregne di una umanità a volte dolente, a volte schiacciata dalle sovrastrutture che essa stessa ha costruito, a volte sfiduciata, a volte ripiegata su sé stessa quasi non ci fosse via di scampo, ma sempre sorretta dalla fede, non quella soccorritrice di manzoniana memoria, ma quella sulla quale viene edificato, insieme alle quattro pietre che formeranno una catapecchia, il futuro.
Perché di futuro parliamo. Non necessariamente di epoche scintillanti di luci e schiamazzanti di suoni: il futuro è anche un seme piantato che germoglia e cresce e si fa albero. Lo fa in silenzio, in umiltà, ma provate ad estirpare dal terreno un albero ben radicato… Ecco, questo è il futuro di Rolando Rizzo: un albero che l’intemperia potrà colpire, che il fulmine potrà pure spaccare, ma che dentro di sé possiede l’energia vitale, il respiro, il tremore primordiale della vita.
Ciò che in Giordano è anoressia in Rizzo è mancanza di cibo; quello che lì è bulimia Rolando lo fa diventare fame; le storie di depressione de La solitudine dei numeri primi, in Cieli tamarri sono la volontà di eludere orizzonti limitati per allargare il campo visivo oltre la cocciutaggine di cieli sempre troppo soliti, per vedere come cambiano le prospettive e riprendere un respiro alternativo o crearsi almeno la possibilità di questa alternativa.
Nel racconto A ciota è contenuta non solo la spiegazione del sottotitolo, ma anche tutta l’umanità dell’autore, la sua attenzione verso i deboli, il suo smisurato amore verso gli esseri umani ai quali, sempre, concede una possibilità di riscatto anche quando gli eventi sembrano andare in senso opposto. Graziedda è “ciota” e, dunque, condannata a piangere silenziosamente sotto ad un letto, ad essere derisa, a vivere una vita di buio silenzioso. Per Rolando Rizzo, no. Egli costruisce una delicatissima trama nella quale s’intrecciano sentimento e pedagogia; religiosità e dottrina, tutta tesa a riscattare ed elevare una figura considerata marginale ed a volte fastidiosa.
Il libro di Rolando Rizzo non vuol essere un libro di storie, ma un libro di storia. Micro storia, certo, storia locale, di una società minima in confronto ai grandi sommovimenti raccontati dalla storiografia ufficiale, che però va raccontata per non disperdere il grande patrimonio di umanità custodito nelle pietre delle nostre vie, delle case delle nostre contrade.
Gli uomini, le donne, i bambini bruciati dalle guerre, divengono ad un certo punto statistica. E poi si contano i danni. Ma quei morti chi erano? E gli scampati, quelli senza identità, che conseguenze hanno avuto e che cosa ne è stato del loro futuro? Sì, ma vuoi mettere la conta dei milioni e milioni di lire, adesso euro, di danni? Per quello si combatte, per i soldi, e allora cosa vuoi che contino gli esseri umani?
Rolando Rizzo, attraverso la narrazione di fatti minimi ci offre lo spaccato di quella società che cerca di costruirsi un ordine prima morale e poi, appunto, sociale. Un ordine nel quale entri prepotentemente ed al primo posto l’uomo inteso cristianamente al centro di un universo che espande i suoi confini dalla miseria ottusa di vecchie sovrastrutture mentali, verso il sogno non di grandezze irraggiungibili, bensì di pacificazione e speranza.
Le figure che popolano e si muovono nel libro questo sono: piccoli sogni, piccole speranze. Mi viene in mente il racconto I cugineddi e l’affarunu, nel quale si racconta di come due parenti tentano l’affare della vita con un commercio di noci. Qui, ma anche altrove, la lezione di Giovanni Verga è presente e viva, così come quella di Tommaso Landolfi: la volontà di riscatto frustrata e la trasfigurazione di personaggi in entità misteriose che travalicano il senso di compiutezza in cui siamo abituati a considerarci. Fallisce il commercio di noci dei “cugineddi”, come fallisce quello di lupini dei Malavoglia, l’uno a causa della neve e della donna-lupo, l’altro per il naufragio della Provvidenza.
L’inquietudine delle donne che attendono il rientro dei mariti, però, in Rolando Rizzo è stemperata in un affettuoso ritorno e nella presa di coscienza che, forse, è sì utile tentare, ma occorre prima rapportare le nostre forze a quelle conosciute e quelle ignote che, nella nostra semplicità, non sempre riusciamo a controllare.
Per questo, allora, siamo destinati a rimanere sempre vittime? No, perché in altra occasione il riscatto avviene e si sostanzia. È la biografia dell’uomo che racconta e che fuggendo da una situazione insostenibile riesce a realizzare il proprio sogno.
Emigra Rolando, emigrano i suoi personaggi; il treno è sempre presente e si fa momento fondamentale nello scorrere del tempo e dello spazio: va comunque, con noi o senza, parte, arriva, ritorna. Sta a noi saper cogliere il momento giusto per andare. E per tornare. Più ricchi non sempre e non solo economicamente.
Elementi essenziali nella narrativa di Rolando Rizzo sono il pane ed il vino; essenziali per il sostentamento del corpo, ma che diventano comunione viva, pulsante, vera. Gli uomini di Rolando si comunicano in una bettola, in una baracca o in un pagliaio, non importa dove e quando, ma sono il vino ed il pane che nella messa dei poveri, dei diseredati diventano sangue e carne di Cristo. E la religiosità è vera ed è testimoniata dal modo in cui Rolando descrive i poveri pasti, dalla cura e dall’amore con i quali gli stessi vengono offerti e consumati: non calici d’oro e favolose apparecchiature, ma rozzi bicchieri e tavolacci di legno. Cristo può essere anche lì, anzi deve essere lì a scontare tutte le pene di esistenze dolorose, dalle quali, in certi momenti, sembra essere bandita anche la speranza.
Ma lo scatto arriva prepotente quando le ragioni più urgenti coagulano diritto e dovere, morale ed etica per progettare un uomo diverso, nuovo, evoluto e non più schiacciato dalla ricerca sfrenata di quella che io chiamo supersoddisfazione. Quello è il non uomo, colui che non vede, non sente, non parla in quanto teso al suo solo soddisfacimento. Rolando ci propone un uomo diverso, quello che si accorge degli altri, che vive, soffre, ride, uccide, ama, è forte della sua ingenuità (ne è esempio il racconto U paluriseddu) e ne fa l’arma con la quale combattere le storture del mondo. È l’uomo. Ma alla fine è Cristo.

Recensione di Teodora Nicoleta Pascu

Dopo avere pubblicato la trilogia narrativa Il Mulino di Colognati (2007), Il Viaggiatore (2009) e il Terzo treno (2011), seguita nel 2014 dalla raccolta di racconti Cieli tamarri, Rolando Rizzo decide di donare al pubblico, nel senso più autentico del termine, un volume questa volta di poesie, Il nulla e l’incanto, ed è lo stesso Rizzo a svelarci il motivo: “tutte le volte che le ho lette in pubblico ho sempre ricevuto richieste di testi, da persone semplici e da persone colte. Ho visto ogni volta persone commuoversi. Ho ricevuto sempre ringraziamenti sentiti. […] Allora mi son detto che i miei versi,  a prescindere dal loro valore artistico, fanno del bene e sarebbe un peccato farli morire.”  In più, i 24 componimenti inclusi, scritti tra il 1961 e il 2012 e organizzati in ordine ‘tematico’ non strettamente cronologico, sono pubblicati dall’editore Ponte Vecchio con testo romeno a fronte, scelta singolare riconducibile all’esperienza personale dell’autore, di servizio come pastore evangelico per alcuni anni in Romania. Anche questa scelta viene motivata dallo stesso autore: “Scrivo per amore, per dovere civile. L’emigrazione è una ricchezza dolorosa del nostro tempo. Sono un emigrante. Lo sono sempre stato. La mia patria è la valle del Pesco a Rossano Calabro, il mulino sul Colognati, è il mondo contadino degli anni ’50. Sono figlio e nipote di emigranti. […] Amerei tradurre ciò che scrivo in tutte le lingue del mondo. Scelgo come simbolo il Romeno. […] Nella consapevolezza che, al di là delle differenze, rimaniamo razza umana, che abbiamo bisogno di dialogare sempre, razza emigrante tutta e sempre, sino alla terra promessa”.

L’autore ha facilitato dunque il mio compito in occasione della presentazione del volume a Catania, nell’ambito del progetto Dialogo fra le religioni promosso dal Lions Club Mediterraneo, che è quello di un Invito alla lettura, svelando sin dalla prefazione la sua professione di fede poetica: la scrittura come urgenza e dovere civile e l’impronta di un umanesimo cristiano moderno, o forse meglio dire postmoderno. Pur senza volersi addentrare nel complesso argomento dell’umanesimo laico versus l’umanesimo cristiano, sicuramente questo è uno dei tratti significativi e pregnanti della poetica di Rizzo; d’altronde, l’umanesimo è un aspetto che accomuna le chiese cristiane, poiché laddove il Cristianesimo si dimostra come capace di amare e valorizzare l’uomo, si mostra, com’è, un autentico umanesimo. Capace di ascoltare e affrontare vittoriosamente il bisogno dell’umanità del nostro tempo. Perciò, dal punto di vista cattolico, il compito di “andare, con la Chiesa, fiduciosamente verso l’uomo” (Giovanni Paolo II), superando la tentazione di una sdegnosa, ma sostanzialmente triste, rinuncia (di una arroccata rinuncia alla pienezza, che è da proporre a tutti), appare più che mai attuale; e pare richiedere una attenzione quanto più possibile simpatetica verso tutto ciò che di autenticamente umano è emerso ed emerge nella storia dell’uomo, con la consapevolezza che per l’umanesimo cristiano la dignità umana esiste solo se misurata sul paradigma del mistero di Dio.

Occorre sottolineare questo aspetto, poiché esso è caratterizzante, come si accennava sopra, di tutta la poetica di Rolando Rizzo, il quale parla di un “divino meravigliosamente umano”, come degli altri scrittori cristiani, che sebbene attraversati anche loro dai momenti di dubbio e di incertezza durante la ricerca di senso esistenziale, offrono la risposta della speranza insita nella loro fede, nell’essere credenti. Ritornando al volume di cui nel titolo, cercherò di darne una breve lettura critica dal punto di vista letterario, partendo dai nuclei tematici, passando per le fonti di ispirazione, gli aspetti stilistici e linguistici, per arrivare infine ad alcuni cenni critici sulla traduzione romena, parte integrante del testo.

Come rilevato per la produzione narrativa, nella quale la critica ha intravvisto accenti veristi e influenze manzoniane, anche nella produzione lirica si possono individuare due principali filoni tematici: da un lato, il mondo contadino della terra d’infanzia (con una serie di sotto temi: l’epos famigliare, la natura, ecc. ) e la vita quotidiana (eventi di cronaca, fatti quotidiani, ecc. ) e dall’altro lato la spiritualità, la religione (i canti di lode). Chiaramente, spesso i temi si intrecciano, vengono travasati e mescolati, non a caso il volume si apre con la poesia Zu Peppe, Mugnaio e si conclude con il Canto di lode al Creatore e Redentore.

La parola poetica di Rolando Rizzo fiorisce dunque da tutto un sostrato di eventi, storie, figure poetiche, motivi, nati per spontanea germinazione dalla sua realtà esistenziale, a volte sfumando i contorni posti tra mondo fenomenico e quello fantastico. La sua poesia non è, pertanto, un fenomeno a posteriori, più o meno forzato, ma una creazione a sé stante, autonoma, parallela e non subordinata alla narrativa. Si può giungere in tal modo ad affermare che per Rizzo al principio era la poesia; e la poesia era la parola faticosamente fatta sua, e protetta, sino a vederla crescere piena di meraviglia dal mistero dell’io e del mondo, sino a spaziare in un infinito terrestre e celeste insieme, mirando all’origine primigenia dell’essere, con sentimento di partecipazione, in una dimensione di religiosità universale, dal nulla all’incanto. Tanto che, seppure con tono lievemente didascalico, l’autore, nel componimento dedicato Ai libri poetici, ci regala una definizione stupenda della poesia: La poesia è lo spontaneo straboccare / di sentimenti possenti,/ un microscopio del cuore / che scopre il sublime nelle cose trascurate. / Il poeta è un bambino che si meraviglia della vita / che pulsa in ogni filo di erba / un eterno innamorato di ciò che cela ogni respiro. / La poesia rende solenne il dolore / sacro l’amore, insopportabile la violenza / infinito l’attimo, epica la vita qualunque; / dà voce alla sofferenza, agli aneliti, ai sentimenti, / all’anima che pulsa come un cuore /nella foglia e nella stella, / agli attimi segni e pregni di eternità. / Ogni autore sacro è poeta / poiché parla al cuore e all’anima/ con commozione e lacrime / si meraviglia del creato e del divino / così meravigliosamente umano. (p. 76)

Ecco che, mentre la narrativa si  tinge a tratti di lirismo, anche la lirica è spinta a narrare. Il tutto usando una ritmicità vicina a quella delle fiabe, in cui sintagmi del linguaggio medio predominante si intrecciano con alcune parole “poeticissime” , come direbbe Leopardi, realizzando delle catene semantiche spesso complesse nella loro apparente semplicità, o ingenuità.

Rizzo non vuole separare il personale dal poetico, rendendo così quest’ultimo vagamente familiare, accogliente, piacevole, poiché modellato sul suo paesaggio dell’anima, perlomeno per quel lettore che sa ricostruire la mappa dei riferimenti biografici. Particolarmente significative, tra i componimenti in cui viene rievocata l’infanzia e le figure famigliari, appaiono la poesia di apertura del volume, Zu Peppe Il Mugnaio, poi Padre, Quel Natale del 1950 e Tre letti, meriterebbero un’analisi a parte ognuna, impossibile nello spazio di una recensione. Si può sottolineare, però, che il recupero lirico attraverso il ricordo di frammenti del passato, recupero che vorrebbe farlo rivivere e durare, è estremamente ben riuscito. Diceva a proposito Giuseppe Bonaviri, altro grande poeta, che “scrivere è corporalizzare il mondo esterno che si porta dentro nella memoria … La memoria è tutto.” I sentimenti dell’io sono proiettati anche negli oggetti che questi percepisce e focalizza. Ed ecco rivivere i sapori, gli odori, i suoni, i colori di quel mondo, della sua Rossano con i muri di calce bianca, il mulino che profuma di farina, di mirto e di neve, con gli ulivi e gli aranci nel sole d’agosto, con le castagne che portavano l’autunno sotto la cenere, con la voce buona dell’agnello, con i vicoli incantevoli che a Natale odoravano di ragù e di fritti e sfavillavano di presepi; ecco il nonno che racconta la fiaba del re, il padre che racconta i suoi sogni di contadino,  le sue speranze buone, le sue canizie bianche di illusioni, che tramanda la fede; ecco la durezza, la “fame dei bambini che sognavano briciole come i passeri”, quando “l’ultimo tozzo di pane era stato consumato la sera, non restava che un pugno di olive” mentre fuori era nevicato sull’aspro colle… un mondo povero, semplice ma puro, con un richiamo insistente sulla figura del fanciullo, del bambino, contrapposto a quello “di neon di dei bugiardi”.

Ricorrente il tema del distacco e del congedo, il desiderio di ritornare, sviluppato anche in altri componimenti, per esempio in Se il campanile sulla collina, attraverso il motivo del treno (parola determinate per lo spazio ristretto, inserito nello spazio più ampio, quello del tragitto, che risulta subito alienata dalla aggettivazione “antico e rugginoso”), del viaggio che diventa simbolicamente il viaggio della vita, in un andamento che mescola il registro letterario e quello medio, colloquiale, con tratti metaforici e ricco di ossimori: Corre il treno / non pare sfiorare stazioni: / e, il tutto angusto / e solo rischiarato dalla vita / che a tratti repentini / illumina l’anima / […] Vorrei vedere, vorrei capire / non ho che intravisto / nella corsa sfuggente in cui sono costretto / così poche rare cose. / Ho visto te, sì viva e vera / ti ho consumata di abbracci / ma non ho saputo né parlarti / né ascoltarti. / […] Ma del treno che ha ripreso per altri la corsa / restano solo vapori che si dissolvono nel sole / e l’ultimo bagliore muore nel nulla? . Ecco la svolta religiosa, l’interrogativo non è una negazione del divino, ma proprio per la forza dell’interrogazione significa il suo recupero, sino a rendere possibile il ritorno alla fede, la grande apertura e il ricominciare del ciclo della vita: Tutto sarebbe assurdo se prima del silenzio / non rintoccasse gioiosa e insperata di primavera / la piccola campana sotto la croce: / dalla chiesetta linda di pietra / sul poggio ricamato di anemoni / sotto le volute fresche di una rondine che torna. (pp.56-60)

Lo stesso stile di apparente semplicità, che si affina di poesia in poesia, si ritrova anche nei componimenti di natura religiosa, i quali sono a volte intimistici, raccolti in una dimensione spirituale più interiore ed esistenziale, mentre altre volte sono apertamente moralistici, con finalità etiche e di critica sociale, molto aspra ma alleggerita da toni ironici, per cui mai sopra le righe. La Bibbia, com’è noto, ha influenzato più di qualsiasi altro testo la letteratura occidentale, e questo vale soprattutto per la letteratura italiana. Basterebbe un rapido sguardo agli scrittori di ispirazione cattolica della seconda metà del Novecento, da Pomilio a Parazzoli, da Santucci a Turoldo, da Ulivi a Testori, a Rodolfo Doni, per non dire di scrittori non credenti (Buzzati, Landolfi, Bonaviri, Fallaci) che trattano anche inconsciamente una vasta gamma di elementi religiosi. Rolando Rizzo si colloca in questo filone, con la consapevolezza che, seppure etichettare sia sempre difficile, per necessità “tassonomica” la critica letteraria deve operare classificazioni. I motivi biblici sono elaborati in chiave moderna, attualizzati, innestati persino in materia di esperienze personali, di fatti di cronaca, ecc. per diventare matrice costante, feconda, universalizzante. L’io poetico si muove tra il dolore e l’amore verso la speranza, cerca di capire l’incomprensibile, il mistero della fede, rendendo sempre più complesso il discorso filosofico sulla ‘favola’ della vita e dell’aldilà, i problemi che agitano l’anima del cristiano di oggi e di sempre. Nel componimento Aspettando la Beata Speranza dice Rizzo: Io non so, Signore, che cena sarà: / se ci saranno gli alberi lungo i fiumi, se canteremo con la stessa voce, / se ci sarà la stessa musica, / se i piccoli fanciulli li farai giocare / con te fra candide nubi; / […] Ah! Io non so, Signore, / quali saranno i colori della festa: / ma so che tu / mi hai donato questa beata speranza, tu / che già mi desti / il tuo sangue di giusto sul Golgota / e la meravigliosa strada del bene. (p. 22) Emergono i temi della crisi interiore ed esistenziale, l’incertezza del cristiano che lotta con se stesso, a volte, e con una società ingiusta: cade e si rialza, si immola per il prossimo in un mondo scristianizzato, capisce la solitudine postmoderna del vivere di oggi. È greve il mio tempo. / È greve come l’altro questo millennio nuovo, ma Cristo è sempre presente nell’evoluzione dell’umanità, nella storia e fra gli uomini, si incarna e vive nell’uomo di ogni tempo, di ogni strato sociale, di ogni età, lungi dal mio tempo, / nel mio tempo / e dovunque , poiché senza di lui, dice Rizzo, le scomode capanne che vedono / il tuo ultimo Sguardo / diverranno comodi grattacieli / ma gli uomini saranno infelici come quelli di ora.  ( I giovani, Messia! – p. 30;  Muori, Galileo! – p. 32, Luca 23:23 – p. 44). La crisi della fede non è però distruzione, non deve esserlo, invece è esperienza costruttiva di più ampie e solide conoscenze, una spinta verso una nuova risurrezione e verso una nuova ricerca di Cristo. Come nota un personaggio di Rodolfo Doni: “Forse , anche questa crisi religiosa che viviamo, si dice, era utile che venisse. E forse sorgerà anche da questo mezzo cristiano che sono un cristiano nuovo”. Da qui ne deriva un forte impegno civile e una esplicita critica sociale: accade alla mia / Calabria oggi, terra disdegnata da Dio: / alla Sicilia, alla Puglia, alla Campania … / Da troppo tempo / spremute e umiliate da assassini e predoni. / […]  Grazie Signore, / per Mosè, per Bonhoeffer / per Ambrosoli / per don Puglisi, Falcone, Borsellino, / per don Peppino Diana / che prima del suo assassinio / pronunciò le parole della nostra vocazione: / verso qualunque mafia: / “Per amore del mio popolo non tacerò” ! (Canto di lode al signore, Dio di Gesù Cristo – p. 136 ). Come si può osservare, gli interessi morali sono sempre dichiarati, scoperti, i versi vibrano di sincerità e passione, impregnati del sentimento della pietas per gli oppressi, per gli ultimi degli ultimi. La storia buia e crudele non è disperata perché agitata da una luminosa Presenza.

Rizzo dedica una delle poesie più belle della raccolta alla Romania, Mi ha raccontato un fratello rumeno, in cui fa un ritratto a tutto tondo della Romania e della sua gente, della sua natura, della sua storia, delle tradizioni, della cultura: Sapessi com’è bello il mio paese! / Sogno dei pittori. / La mia Romania. / Siamo figli dei Traci e dei Romani, entrambi guerrieri / siamo razza umana che ha assaporato / il miele e il fiele della vita / che ha incontrato mille rivoluzioni  e guerre / che ha sognato: / la giustizia, la libertà, la pace, l’unità, la democrazia / senza mai trovarle. / […] Come tutti i popoli della terra. / Siamo umani e pellegrini / a cercare ciò che sempre diviene miraggio. / Ma il nostro Signore è vero / e la sua croce guarda la terra / dall’alto dei nostri monti e dal suo cielo / e ha pietà di noi, / ci costringe con il suo amore / e ci fa pellegrini della speranza. (pp. 100-104)

Infine, alcune considerazioni sulla versione romena del testo, premettendo che la traduzione letteraria, e specialmente dei testi poetici, è sempre un processo difficilissimo. Nel complesso, la versione romena è abbastanza convincente, eccetto alcune osservazioni di carattere prettamente tecnico, ma è un dato di fatto che gli studiosi concordano ormai nell’affermare che non esiste una versione definitiva di un testo tradotto. I problemi traduttivi sono stati risolti con un approccio che rivela la conoscenza del macro testo dell’autore e della sua biografia, indispensabili in quanto la traduzione tratta categorie culturo-specifiche, cioè in rapporto indissolubile con la cultura all’interno della quale è incluso il testo letterario. A livello linguistico, l’atto ermeneutico credo sia stato facilitato dal rapporto diretto con l’autore, e così pure il conseguente atto decisionale, cioè la scelta fra diverse ipotesi traduttive. Dalla mia esperienza come traduttrice letteraria, ritengo, in generale, che una traduzione debba svelare non l’opera ma un cammino verso l’opera che possa guidare il lettore straniero in un mondo a lui sconosciuto, dalla prospettiva dello scrittore di partenza. È un avvicinamento, un tentativo di rendere proprio l’altrui, direbbe Bachtin, che renda contemporaneamente l’opera tradotta autosufficiente rispetto all’originale. Mi auguro, pertanto, che la versione romena potrà fare capire e fare conoscere quanto espresso non solo e non tanto in un’altra lingua, ma soprattutto in un’altra cultura, così da sviluppare nel lettore il desiderio di avvicinarsi sia al testo originale che alla cultura che da esso traspare.

Con l’auspicio di fare scoprire questo interessante e stimolante scrittore anche al pubblico romeno, la conclusione del nostro invito alla lettura resta nel segno della speranza, “questo grande patrimonio, questa leva dell’anima, tanto preziosa ma esposta ad assalti e ruberie”, come la definisce Papa Francesco, con le parole che chiudono il volume: Conservaci allora nella tua speranza, / rimuovi la nostra stanchezza / e il desiderio che ogni tanto ci coglie, / come i dispersi sulle nevi, / di abbandonarci alla dolcezza del gelo / che lentamente uccide. (Creatore, Signore della tomba vuota – p. 142) .

Cover
Cover

Recensione della prof.ssa Mariuccia Gianicola Luberto

Vice presidente della Società “Dante Alighieri” di Cosenza

Conosco bene questo autore dalla penna felice. Ho recensito tutti i suoi libri e due li ho presentati.

Rolando Rizzo è uno scrittore originale, un po’ fuori dagli schemi consueti che sorprende, attrae e sperimenta sempre nuove forme di scrittura:

– Il romanzo filtrato dalle riflessioni sulla sua storia personale e sugli eventi della vita;

– Il romanzo introspettivo, in cui intreccia estro, ispirazione, fantasia e realtà in un poliedro affascinante di racconti;

– L’opera in cui la vena poetica, naturale, istintiva, trova la sua voce nei versi, ed ecco un volume di poesie.

– Ed ora un giallo, Il principino scomparso, nel quale rinsalda i valori morali, la sua visione della vita e l’attenzione ai problemi sociali.

Rizzo è uno scrittore intrigante, trascina il lettore con continui colpi di scena e scatti di suspence in una colorata giostra di personaggi che vivono tante storie e si muovono come attori in un palcoscenico.

Liriche e prose nascono come emanazioni del suo animo, tradotte in uno stile personalissimo nell’ordito della frase e col dono dell’immediatezza delle immagini.

Viaggiando tra le pagine, le parole ci guidano suadenti e spesso diventano un elemento fisico dotato di suoni, colori, plasticità, in un continuo estro creativo.

Tanti libri, tanti momenti di ispirazione, di fantasia e di riflessione.

Ogni libro ha una sua fisionomia, pur con elementi che tracciano un substrato comune costante:

– La fede salda, non astratta, quindi genuina, perché filtrata dalla ragione e sentita con spirito critico;

– Il valore delle virtù cristiane nella vita dell’uomo;

– La rappresentazione carica di sentimento della vita agreste della sua infanzia, che gli detta le parole per scolpire quel mondo bucolico di contadini, fabbri, mugnai, piccoli artigiani umili e saggi.

Un mondo bucolico virgiliano animato da canti, suoni di zufoli di canna, celebrazione dei lavori campestri e festose danze sull’aia a scandire le stagioni.

Rizzo ha un senso sacro della natura, che lo porta a farne non la descrizione, ma la rappresentazione in immagini poetiche, specie delle creature più semplici, ci ricorda l’incanto della grande poesia di Myricae del Pascoli.

Quest’aura poetica che serpeggia nel racconto è un elemento in più che rende attraente la lettura di ogni opera di Rolando Rizzo e che ritroviamo intatta, quindi, anche in questo libro giallo.

Il principino scomparso ha tutti i crismi del giallo:

– Un rapimento,  una misteriosa scomparsa, un delitto forse?

– Varie persone sospettate, colpi di scena, più piste che creano un turbinio di supposizioni;

– Un detective privato, Capone, abile, intuitivo, metodico nelle indagini, tenace nel seguire ogni pista;

– Di contro un Commissario burocrate, stanco disilluso e incapace che chiude presto il caso non secondo prove e dati certi, ma per sue comode convinzioni.

I protagonisti del romanzo sono Peppineddu e Carminuzzu, due fratelli gemelli, belli, intelligenti, legatissimi tra loro.

Suggestivi i nomi in vernacolo e nel romanzo compaiono qua e là espressioni dialettali che danno colore al dialogo.

Coprotagonista un “vespino bianco” per due, che accompagna i due fratelli in ogni loro movimento, sempre uniti, sempre insieme a formare un trittico.

Teatro della vicenda la cittadina di Macriondo, nome fabuloso che presto, però, acquista concretezza geografica lambita dal Tronto, fiume che scende dalla Sila, così com’è concreto, reale, ben definito il territorio intorno.

Il romanzo inizia in un’atmosfera di favola e il lettore segue le vicende di Agostino e Pasquina che vivono coltivando un loro agiato podere circondati per le loro virtù morali dalla stima dei vicini.

Ma ecco che una notte il Tronto con la sua piena vorticosa distrugge maggese, stalle, campi, aranceto segnando così il futuro della coppia che emigra a Stoccarda in Germania. Qui grazie ad un zio emigrato anni prima, trovano lavoro presso i ricchissimi signori Krop, proprietari di una fonderia, Agostino come operaio, Pasquina come domestica. Ma presto la signora Krop, conquistata dalle sue doti, la vuole come dama di compagnia e sua confidente.

Dopo circa quattro anni Agostino e Pasquina ritornano a Macriondo con due gemelli e un cospicuo e imprevisto conto in banca maturato in modo lecito ma eccezionale che utilizzano per un’azienda agricola moderna creando numerosi posti di lavoro onorati da trattamenti umani e giusti.

Gli anni parrebbero scorrere felici… Ma ecco un evento a segnare una svolta drammatica.

Peppino, il principino, misteriosamente scompare. Il trio si spezza, il vespino bianco non corre più. Il dramma gela il cuore dei genitori e di Carminuzzu.

Entra in scena Capone, il detective privato che Agostino fa venire da Napoli. Si apre a questo punto un ventaglio di personaggi, un caleidoscopio di storie. Ogni personaggio è un tipo umano e per questo universale, eterno nella sostanza, anche se pare antico, anche se veste di attualità.

Davanti al lettore sulla scia delle indagini di Capone si muove una umanità variegata in un’altalena di luoghi, dal paesino con le sue cantine ai quartieri di Napoli, Torino, Cosenza, nei boschi della Sila, dalle discoteche con i suoi buttafuori alle squallide baraccopoli dove i rifugiati stranieri vivono ammassati, sfruttati, ai limiti dell’umano e della legge.

Si recita a soggetto in queste indagini che durano più anni e cementano l’amicizia tra Capone e i Giovelli.

Tanti i problemi sociali evidenziati, che Rolando Rizzo conosce bene, anche per il suo ministero pastorale, e che la sua penna sa approfondire con acuta sensibilità psicologica.

In un turbinio di piste, interrogatori, incontri, colpi di scena, alla fine l’enigma viene risolto.

Ma questo giallo non si chiude in modo netto, deciso.

Tra le righe si intravede un tocco pirandelliano che ci porta a Così è se vi pare.

E anche per questo il libro va letto.

I gialli di valore vanno letti perché sfidano l’abilità interpretativa, l’induzione, la logica, la capacità di cogliere anche i messaggi sotterranei e la presenza dell’imprevedibile. Sollecitano il lettore a costruirsi un’idea analizzando i fatti in modo plurale. Tutto ciò che rende affascinante la lettura. Il principino scomparso possiede tutti gli elementi per una lettura intrigante.

Cover

Recensione del dottor Raffaele Battista, direttore Biblioteca Facoltà Teologica Avventista di Firenze

Il quarto romanzo di Rolando Rizzo arriva dopo la trilogia dei treni nella quale l’Autore ha espresso la sua idea di perfezione letteraria, completezza storica e biografica, nel fuoco di quella fede cristiana nata nel suo cuore e in quello di altri, incontrati sulla medesima strada. Penso a quella perfezione che riguarda lo stile, la varietà delle immagini, la profondità del pensiero e l’autenticità dei sentimenti. Facile profezia, con ogni probabilità, siamo all’inizio di una nuova trilogia.
Il Principino Scomparso permette al lettore di ritrovare il Rolando Rizzo poeta della terra, degli uomini e delle donne che di essa hanno vissuto e che ad essa ritornano, per ritrovarsi. Ritroviamo le descrizioni di quei paesaggi naturali che rivelano, più che una tensione panica, una nostalgia dell’Eden. Un Eden possibile, non mitologico, da difendere dalle spine e dai triboli, da salvare nonostante i sussulti devastanti di una natura, “matrigna” suo malgrado, che anch’essa “geme ed è in travaglio” in attesa della redenzione.
Il romanzo segna l’ingresso, inaspettato, dell’autore nel mondo del giallo. Poteva essere un’avventura rischiosa, per uno scrittore che ci ha abituati ad altre atmosfere. Rolando Rizzo, è vero, ci ha fatto più volte udire le sinfonie della natura e condotto nei meandri dell’animo umano; ma cosa avrebbe detto di nuovo o di inconsueto in un genere così ampio e trattato?
La storia presenta i personaggi, quasi archetipici, del romanzo di Rizzo. L’uomo e la donna, l’amore e l’odio, la famiglia sempre in bilico tra unità e dissoluzione. E poi, ancora, la campagna e la città, la lotta storica tra capitale e lavoro, tra ricchi e poveri, tra fortunati e disgraziati, ingenui e furbacchioni. Infine, i santi e i peccatori, visti in prospettiva protestante, evangelica. Lo sguardo dell’autore è realistico nel descrivere i vizi umani, tuttavia mai compiaciuto: perché il male non ha alcun fascino. Le figure femminili sono descritte nella loro bellezza, con occhi puri, non puritani.
Il realismo di Rizzo non cede al cinismo, perché la redenzione è possibile. Questo breve romanzo è un caleidoscopio che rende possibili molte letture. Tutte giustificate dallo spessore dei personaggi e degli scenari. Eppure, anche quando si addentra nei temi sociali più controversi è impossibile ravvisare in queste e altre pagine il seme velenoso (e noioso!) dell’ideologia.
L’amore profondo per la terra intesa anche come patria, cultura, paese, tradizioni è palpabile in ogni pagina, così come il senso naturale della solidarietà verso gli ultimi. Questo valore si raccoglie e prende subito quota, fino a instaurare scenari di iniziativa imprenditoriale, nella quale la proprietà non è un furto, quando e se la si intende come un bene ricevuto dal Dio della Creazione. Un patrimonio da vivere come un dono altruistico, in un susseguirsi di azioni virtuose improntate alla legge del servizio. Gli antieroi di Rizzo, si esprimono con valori socialisti e liberali; riassunti, compresi e superati in una forma nuova: quella della rivoluzione protestante che propone una “terza via” che sboccia, senza violenza, dal cuore e dalle braccia di uomini e di donne di buona volontà. Uomini e donne di un Meridione non schiacciato sugli stereotipi della rassegnazione cupa e fatalista del “bracciante-schiavo” o della spavalda, proterva ferocia dei mafiosi vecchi e nuovi.
Nonostante i fili della trama abbiano… fin troppi colori! l’ordito è una storia gialla che intriga e spinge fino all’ultima pagina con una dose giusta di suspense, senza tradire il lettore con artifici o forzature. Non sarà facile, nemmeno per chi è più avvezzo al genere, intuirne il finale. Probabilmente, come Capone, il detective incaricato di risolvere il mistero, ci si troverà impigliati nel roveto di ipotesi tutte da verificare. Capone, attivo e metodico non si impone, tuttavia, come un genio fuori dal comune. Egli dialoga con il lettore quasi lasciandogli un suo spazio. Un giallo che, diversamente da alcune soluzioni contemporanee, soprattutto cinematografiche, non costruisce figure di colpevoli dal fascino diabolico, ma presenta un’umanità che spesso porta il male, non come una macchia, ma come un pesante fardello. Una pesante eredità da risolvere ed estinguere nell’abbraccio di Dio e dell’uomo.
Il tratto distintivo della letteratura di Rolando Rizzo, il Principino non fa eccezione, è l’elegia della normalità. L’assoluta umanità dei personaggi che rimane tale, anche quando parlano del mistero della vita; anche quando testimoniano di Colui che, secondo Rizzo e i suoi personaggi “parlanti”, il mondo e tutto quello che esso contiene, ha creato.

Raffaele Battista

Cover

La fede in giallo

Dora Bognandi

Davanti a un folto pubblico composto da amici, conoscenti, lettori storici e nuovi degli scritti del pastore avventista Rolando Rizzo, sabato 27 ottobre i professori Francescomaria Tedesco, Alessio del Fante e Raffaele Battista hanno presentato il volume Il Principino scomparso edito dalla casa editrice AdV.

Rispondendo al mandato evangelico di condividere con chiunque la propria esperienza di fede, ogni cristiano sente impellente il dovere/piacere di parlare dei valori a cui si ispira, scegliendo le modalità che gli sono più congeniali, quelle che ritiene più efficaci per condividere sentimenti e valori molto intimi e profondi. Il past. Rolando Rizzo, poeta e scrittore, autore di molti testi, negli ultimi anni sta sperimentando con successo una testimonianza cristiana attraverso romanzi, racconti e ora con un giallo, Il Principino scomparso, appunto. Lo fa con uno stile vivace, colorato, avvincente che diversi accostano a quello di Verga o Sciascia e che trasporta il lettore e la lettrice in un mondo antico, spesso carico di povertà e disagi, ma non privo di bellezze straordinarie. Bellezze evidenziate non solo da una natura non ancora contaminata dalla “civiltà”, ma da profondità di sentimenti e umanità forse proprio dove non ci si aspetta. Lo fa scegliendo di non stare a priori dalla parte che corrisponde alle proprie scelte di vita o religiose. Anzi, non esita a descrivere gli aspetti critici di un mondo religioso vittima di stereotipi e desiderio di affermazione unilaterale. Spesso invece, tra le file di un ambiente religioso e sociale non condiviso e criticato, spiccano figure di grande umanità e levatura spirituale che hanno tanto da trasmettere, se solo non si fosse accecati dal pregiudizio. Attraverso storie paradossali, come talvolta lo è la vita stessa, la descrizione di miserie d’animo, del senso di impotenza che attanaglia chi è colpito da disgrazie immeritate e non cercate, di sentimenti di solidarietà gratuita e generosa, l’autore offre molti spunti di riflessione su se stessi, sulla comunità religiosa di appartenenza e sulla società. I racconti di spaccati di vita vissuta hanno sempre avuto una loro efficacia, come testimonia anche la Bibbia, il cui contenuto è principalmente composto da storie di persone, famiglie, clan religiosi che si confrontano con la complessità dell’esistenza per testimoniarne la fatica, ma anche per aggiungere valore e senso alle proprie scelte.

 

Share This